La dimensione universale della coscienza
di Eros Selvanizza
In primo luogo sintonizzandoci con i Grandi Maestri che hanno onorato la Federazione e rivolgendo un ricordo particolare al Maestro Sivananda.
Al suo ashram di Rishikesh mi hanno fatto capire la potenza e la valenza di questo grande essere che è ancora presente.
Il tema della conferenza di oggi è La dimensione universale della coscienza.
Quante volte nelle nostra pratica yoga usiamo questa parola: sii consapevole, sii cosciente del respiro etc… Ma che cosa sappiamo di questa parola? L’etimologia della parola coscienza deriva dal latino cum scire: sapere insieme; questo insieme è qualche cosa che induce a riflettere e che ha delle assonanze con lo yoga che significa: unità, unire; qualche cosa, pertanto, che non riguarda solo un sapere individuale, ma un sapere collettivo, molto più vasto.
Che cos’è la coscienza? Ci sono alcune definizioni di grandi personaggi che ci aiuteranno a comprendere meglio questa straordinaria possibilità attraverso la quale l’essere umano può conoscere se stesso e il mondo e comunicare.
Numerose sono in realtà le definizioni di coscienza che sono state date nella storia, numerose quante sono le discipline che la studiano: ciascuna dalla propria angolazione.
Rita Levi Montalcini definisce la coscienza come «lo stato di consapevolezza della nostra esistenza, attraverso il quale, come entità individuale, attuiamo il riconoscimento delle nostre azioni e il loro susseguirsi temporale e sequenziale».
È chiaro come questa definizione appartenga a una scienziata del nostro tempo che vedeva la coscienza come emanazione del cervello; diciamo subito che la posizione orientale è diversa e opposta, in quanto vede la coscienza come un qualcosa che esiste al di là del cervello, il quale è solo uno strumento che ne permette la manifestazione.
Un’altra definizione è quella del grande letterato premio Nobel Henri Bergson: «la coscienza appare come il principio motore dell’evoluzione; se le nostre analisi sono esatte, all’origine della vita vi è una coscienza, o meglio, una super-coscienza».
Grande definizione questa di Henri Bergson! Fa già intravvedere che la coscienza prevede una evoluzione; ciascuno di noi può chiedersi: quale grado di coscienza ho attualmente? Questa coscienza attuale è definitiva?
La coscienza è un fenomeno difficile da definire e da comprendere, anche perché non si è certi che sia capace di comprendere se stessa, è quasi una contraddizione.
Si è cercato di classificarla in vari ambiti: in psicologia, in psichiatria, in neurologia etc… La coscienza si “frammenta” nei vari campi dello scibile umano. In psicologia viene considerata come lo stato di vigilanza della mente, in contrapposizione allo stato di coma: è considerata lo stato opposto all’inconscio, un’esperienza negativa o di sensazione inconsapevole; in psichiatria, la coscienza è vista come funzione psichica capace di intendere, di definire e separare l’io dal mondo esterno; in campo etico, è la capacità di distinguere il bene dal male; mentre la coscienza in filosofia acquista valore teoretico in quanto si intende la filosofia uno strumento privilegiato per cogliere verità fondamentali altrimenti inaccessibili.
Nel corso della storia della filosofia, il termine coscienza ha assunto significati particolari, specifici, distinguendosi dal termine generico di consapevolezza, attività con la quale il soggetto entra in possesso di un sapere.
Vi è anche una forma di coscienza detta “dell’autocoscienza” nella quale si attua la realizzazione del pensiero su se stessi. Come, ad esempio, nella teoria marxista della società e dello Stato, la cosiddetta coscienza di classe, che possiamo definire come la consapevolezza degli appartenenti a una stessa classe sociale o a un gruppo o setta. La coscienza di appartenenza a un gruppo è un aspetto molto diffuso: pensiamo a tutte le forme di aggregazione in gruppi, come ad esempio i motociclisti, che hanno una coscienza che potrebbe definirsi “orizzontale”, frammentata; il nostro interesse di yogi, però, è rivolto soprattutto alla coscienza verticale, ai suoi vari livelli e gradi di profondità.
Ritorno alla domanda precedente: la coscienza attuale è quella definitiva? Se leggiamo una pagina, o ascoltiamo una conferenza. abbiamo la comprensione del messaggio e delle parole; se questa stessa conferenza, o una pagina di un testo, la rileggiamo fra dieci anni, coglieremo aspetti diversi. È cambiato qualche cosa? È cambiato il testo? No, è cambiata la consapevolezza.
Questo mi fa pensare che la coscienza sia perfettibile e che quindi abbiamo la possibilità di intraprendere un cammino verso una nuova dimensione di coscienza.
Tutti noi vorremmo sapere di più, conoscere di più ma come fare? È difficile! Esistono metodologie per poter operare un allargamento, un’espansione della coscienza?
Come prima accennavo, dobbiamo capire cosa il mondo occidentale cerca nella esplorazione del cervello per arrivare a una definizione della coscienza.
Alcuni autori dicono che il cervello, nelle sue funzioni particolari, nelle sue attività inesplorate, non ha ancora partorito una coscienza particolarmente espansa.
La visione orientale è diversa: crede che la coscienza sia preesistente al cervello, che sia una proprietà dell’universo; ho visto delle foto molto particolari del deserto: il deserto è arido, è sabbia, è aria calda di giorno, fredda di notte, un giorno piove e il giorno dopo il deserto è in fiore, tutto fiorito; la vita allora è presente nel deserto, la vita stessa preesiste alla vita del deserto e quando si presentano le condizioni favorevoli, in caso di pioggia, la vita si manifesta.
Allo stesso modo, la coscienza è già preesistente ed è ben diversa da quella che noi usiamo abitualmente; non aspetta altro che ci siano le condizioni ideali per potersi manifestare nella sua totalità, nella sua pienezza; è per questo che parliamo di una coscienza espansa, cosmica o coscienza cristica; una potenzialità, quella della coscienza, che è paragonabile a quella di un seme.
Abbiamo la possibilità di prendere un seme, piantarlo e farlo crescere, creare le condizioni idonee: un terreno fertile, lavorarlo, seguire la piccola pianticella; potremmo domandarci se in realtà abbiamo la possibilità di fare germogliare un seme.
Il potere è insito nel seme stesso; noi possiamo creare le condizioni perché tale potenzialità si manifesti; allo stesso modo, la coscienza in noi è già presente, la coscienza è espansa e totale, però, è come ricoperta da molti veli, perché molti schemi e condizionamenti impediscono la sua espansione reale.
Dunque il termine evoluzione è sinonimo di progressione, di espansione soprattutto verso l’interno attraverso la scoperta di una coscienza con la C maiuscola, che è presente dentro di noi.
Questa è la rivoluzione dei tempi passati, dei tempi in cui gli yogi hanno fatto questa esperienza; sarà anche la rivoluzione dei tempi futuri quando, di fronte all’incomprensione dei misteri della vita, del male e di tutti quei fatti e accadimenti che conosciamo (che a volte ci lasciano molto addolorati), si manifesterà questa nuova coscienza.
Questa è la rivoluzione in assoluto, quella che ci consentirà la conoscenza della vera libertà, a oggi offuscata dai nostri condizionamenti, i nostri samsara e vasana.
La formula cartesiana «io penso, quindi sono» viene messa in forte discussione, in quanto sembra essere solo un caso particolare della coscienza, una modalità in cui la coscienza si manifesta in modo molto selettivo e parziale, attraverso ashmita, l’identificazione con la mente, con i pensieri: «io penso quindi io sono» vuol dire che la mente è collegata con il pensiero? Il pensiero passa… cosa rimane? Dove è la nostra natura profonda immutabile?
Ricordo che il nostro maestro Chidananda diceva: «non sei questo corpo, non sei questa mente», i pensieri quindi sono solo un parto della mente.
Patanjali, nel suo famoso sutra: yoga-citta-vritti-nirodha potrebbe ribaltare questa concezione dicendo: «io non penso e, quando non penso, io sono».
Quando non pensiamo vi è la cessazione dei pensieri che sono i veri perturbatori per la coscienza profonda e allora incominciamo a esistere realmente. Questa è una formula, per quanto un po’ riduttiva, per ricordare effettivamente la differenza che c’è tra il concetto cartesiano e il concetto yogico, perché, soprattutto oggi, un’infinità di persone si identifica con il pensiero, che in realtà è solo una parzializzazione coscienziale e quindi è riduttivo rispetto alla nostra natura profonda e alla completezza della Coscienza.
Le pratiche yogiche, come analizzeremo nella seconda parte di questa esposizione, sono tecniche a nostra disposizione per andare oltre i pensieri; una celebre poesia di un prete indiano che recita così: «puoi controllare l’elefante impazzito, puoi controllare il flusso di grandi acque (e continua con un elenco di cose grandi che l’uomo può fare), ma dominare la mente è più difficile» perché la mente è “la scimmia impazzita” che rappresenta la grande agitazione a cui siamo sottoposti nei nostri pensieri e nel fondo di noi stessi.
Ne è la prova il sonno con i sogni in cui la coscienza ordinaria dorme, mentre qualcosa altro reagisce in un’agitazione continua.
Dobbiamo ricordare questa realtà della mente come un movimento continuo che impedisce la vera presa di coscienza della coscienza reale.
Sarebbe interessante delineare il rapporto fra coscienza e mente, dire che cos’è la mente, anche se anche questa è una definizione non facile da dare; tuttavia, per usare un termine moderno, un termine informatico, potremmo dire che la coscienza, compresa la mente, è l’insieme dei programmi software che costituisce il sistema operativo di un computer, mentre l’hardware, la struttura, la “circuiteria”, può essere considerata paragonabile al cervello fisico, quindi alla rete neuronale.
Poniamo questa riflessione: noi, normalmente, pensiamo o siamo pensati dal nostro cervello, dalla nostra mente? Se analizziamo a fondo il funzionamento della mente – e in questo lo yoga meravigliosamente ci viene in aiuto perché ci propone lo studio di se stessi – ci accorgiamo con sorpresa, e spesso anche con disappunto, che molto spesso noi “siamo pensati” dalla nostra mente, dai nostri programmi che a volte non abbiamo neppure scelto, che sono stati inseriti nella nostra mente per qualche motivo. Per esempio, siamo sottoesposti a condizionamenti e suggestioni dovuti a vissuti dell’infanzia e giovinezza, alle compagnie che abbiamo frequentato e non solo, alle esperienze di vita, oltre a influenze ancora più profonde, che riguardano quella parte della nostra mente detta “inconscio collettivo”, che hanno costruito dei programmi tali da veicolare la coscienza lungo percorsi preferenziali, rendendola, quindi, in qualche modo schiava e non libera di esprimersi.
Ecco perché nelle pratiche yogiche è data una grande importanza al Pratyahara, che vuol dire “contro alimentarsi”, quindi affrancarsi dalle influenze esterne: occhi chiusi, ambiente silenzioso, niente stimoli sensoriali, come una deprivazione sensoriale che ci affranca dai condizionamenti abituali.
Il Pratyahara riguarda soprattutto l’affrancamento dagli stimoli interni, perché una volta chiuso gli occhi, le orecchie e tutto tace intorno a noi, dobbiamo fare i conti con quello che abbiamo dentro di noi, con i nostri ricordi, i nostri condizionamenti, le nostre paure, le nostre fobie, le nostre ansie, i nostri complessi.
È affrancandosi da questa seconda parte, la parte interna, che ci consente di liberare la coscienza e renderla più operativa, più idonea a espandersi, perché di fatto, secondo il processo yogico, la coscienza non è modificabile, non è costruibile, si può solo togliere gli impedimenti che le impediscono di raggiungere la sua piena espansione.
La coscienza è paragonata a una lampada ricoperta di veli: una volta tolti, lasciano brillare la pura luce. Nella pratica yoga non si deve tanto costruire qualcosa, quanto demolire le vecchie strutture. Lo yogi è come un artista quando scolpisce un blocco di marmo: la figura è già presente dentro il blocco, e l’artista deve togliere il superfluo affinché ciò che è già potenzialmente presente dentro emerga in tutta la sua bellezza.
È ciò che è richiesto a ogni praticante yoga: togliere il superfluo, ridurre tutte le influenze che impediscono l’espansione coscienziale.
La coscienza è una proprietà universale. Cosa significa “universale”? Quando pensiamo a un sasso, a un metallo o a un fiore, o a un animale o all’uomo, pensiamo al fatto che possegga un certo grado di coscienza. La coscienza è presente in tutto, in gradi diversi. C’è una curiosa consequenzialità che vorrei citare: gli scienziati del nostro tempo hanno scoperto che la materia è energia, non è quello che noi crediamo attraverso i nostri sensi limitati, capaci di percepire solo una parte dell’universo in cui siamo immersi; la materia è fatta da una serie di atomi, di energie e di vuoto, di attrazione e repulsione, di cariche elettriche; queste scoperte degli ultimi secoli, hanno rivoluzionato anche il campo della fisica, perché i presupposti della nuova fisica si basano su una realtà più profonda di quella precedente, che era soltanto una realtà rilevata attraverso i sensi che, essendo limitati, non possono dare una reale conoscenza dell’universo.
La materia è quindi fatta di energia in continuo movimento, anche se a noi appare ferma, ma l’energia che cos’è? La cardiologa francese Thérèse Brosse ha elaborato una serie di dati molto interessanti avanzando una nuova visione: l’energia è coscienza, una forma di energia-coscienza sottile e probabilmente non immaginabile al nostro livello attuale, così come la coscienza di una nostra singola cellula non è in grado di concepire la coscienza con la quale ora stiamo discutendo. Tuttavia esiste, tuttavia vive, tuttavia comunica.
A questo proposito uno scienziato amico di Swami Paramahansa Yogananda, Sir Jagadis Chandra Bose, ha costruito diversi apparecchi dove ha potuto dimostrare come la coscienza sia presente nei vegetali registrando la loro reazione a stimoli di violenza: una pianta trattata male, si ritira in sé.
Bose ha anche evidenziato come persino i metalli soffrano quando vengono trattati in un certo modo: difficile da credere? Sì, ma per una mente estremamente e rigorosamente scientifica, non per una mente aperta e che ha intravisto le possibilità straordinarie dell’evoluzione della coscienza: coscienza che esiste a tutti questi livelli, livello animale, livello vegetale, livello lunare, livello umano.
A livello umano, possiamo parlare di coscienza cellulare, degli organi, degli apparati, in una integrazione continua dei vari livelli che può creare problemi, per esempio , nel trapianto di organi.
Dal punto di vista yogico, si può ipotizzare che la coscienza del corpo non riconosca la coscienza dell’organo del donatore perché non è integrato nel sistema di coscienza generale del corpo ricevente.
L’obiettivo finale è un’integrazione di tutti i livelli di coscienza fino ad arrivare a una coscienza straordinaria che prende il nome di CIT, coscienza e conoscenza assoluta, che non è condizionata dal sonno o altri fattori.
Un grande maestro spirituale francescano, Padre Guglielmo, dormiva forse un’ora per notte, perché era una persona che aveva oltrepassato tutti i condizionamenti ordinari, raggiungendo una coscienza che è presente persino in uno stato di sonnolenza.
Quindi possiamo chiederci: quali sono le possibilità effettive che la coscienza ha di espandersi? Vi è un concetto, che vale sia nel pensiero orientale che occidentale, che possiamo utilizzare per una sorta di verifica: la coscienza, quando davvero si è espansa, ha degli attributi che sono Sat e Ananda; quando noi percepiamo la realtà della nostra vera natura, l’immortalità e l’esistenza (Sat), accompagnata da una forma di felicità e beatitudine (Ananda), possiamo pensare che la nostra coscienza stia seguendo il giusto corso evolutivo.
Parliamo anche dei pericoli dello yoga, che ci rende forti nel corpo e nella mente e rischia di rafforzare l’ego, che è proprio quella parte di noi che va ridimensionata per lasciare il posto al Sé interiore.
Un testo occidentale di San Paolo ci offre una risposta interessante come verifica del percorso di sviluppo della coscienza (uno spunto di riflessione che ho trovato anche in un discorso di Swami Sivananda) e dice: «che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Lettera agli Efesini 3,17).
La pienezza della coscienza si immerge così nell’amore oblativo, come hanno dimostrato i maestri che hanno sacrificato la loro divinità per far crescere l’umanità e tutti noi!
(a cura di Gianna Lombardi e Andrea Zini
conferenza del 25 aprile 2014)
conferenza del 25 aprile 2014)